
Può esistere un’efficienza senza equità? Se lo chiede Gaetano Fausto Esposito, direttore generale del Centro Studi Tagliacarne, nell’intervento dal titolo “Profitti in crescita, salari in calo: chi paga davvero l’efficienza?”, pubblicato sull’Huffpost. Un quesito attuale, alla luce delle statistiche dell’Ocse che evidenziano il peggior dato di crescita delle retribuzioni reali italiane rispetto agli altri Paesi industrializzati.
“Le imprese pubbliche, in generale meno sottoposte alla pressione della concorrenza, hanno registrato performance di profitto migliori delle private”, scrive Esposito, citando uno studio appena pubblicato dall’Area Studi di Mediobanca, diretta da Gabriele Barbaresco, che ha analizzato i bilanci di 1900 imprese di medie e grandi dimensioni tra il 2015 e il 2024.
“Se in generale la produttività è cresciuta, in particolare ciò è accaduto nelle imprese pubbliche, 69% in dieci anni, contro il 23% delle private. Ma il costo del lavoro pro-capite è aumentato del 13,5% nelle pubbliche e del 17,3% nelle private. Tenuto conto della crescita dei prezzi particolarmente forte nel 2022-2023, il risultato è che al netto dell’inflazione i salari si sono contratti ovunque”.
Dati alla mano, secondo l’analisi di Esposito, “possiamo dire che le imprese pubbliche avrebbero potuto permettersi un incremento medio di circa 7.000 euro pro capite per mantenere invariato il potere d’acquisto dei lavoratori, mentre le private avrebbero potuto arrivare fino a 3.200 euro”.
C’è allora una domanda che ritorna:
- può esistere un’efficienza senza (sostanziale) equità?
- Può un’impresa pubblica realizzare un ampliamento dell’efficienza se, nello stesso tempo, non garantisce ai propri dipendenti la salvaguardia del potere d’acquisto?
“La risposta, suggerita dai dati e dalle teorie, è che la sostenibilità del sistema non si misura soltanto nei bilanci, ma anche nella capacità di valorizzare chi lavora”, sottolinea Esposito.
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