La scalata di UniCredit a Commerzbank e l’offerta pubblica di scambio su BancoBPM ripropongono un interrogativo centrale degli studi sul settore bancario, la questione delle economie di scala. In sintesi, l’aumento delle dimensioni di una banca può ridurre i costi unitari e quindi portare a un aumento di competitività? La questione, inquadrata da questo unico punto di vista, appare controversa.
Secondo recenti studi, infatti, le performance bancarie non dipendono in modo prioritario dalla grandezza dell’intermediario bancario. Questo suggerisce una possibile altra chiave di lettura della vicenda Unicredit e una riflessione su quali siano i fattori che permettono a una banca di essere “top performer”.
È qui che entra in gioco la tipologia di servizio offerto come, ad esempio, quello di Commerzbank e Banco BPM, dove gli aspetti di relazionalità con il cliente sono particolarmente sviluppati attraverso una presenza capillare e, anche territorialmente, più vicina alle imprese. Infatti, le imprese di minori dimensioni richiedono un approccio molto più di servizio da parte dell’intermediario creditizio, specialmente quando devono finanziare investimenti con forte contenuto immateriale.
E l’innovazione, che porta alla crescita della produttività aziendale, passa sempre più per questi asset intangibili. Tuttavia, da questo punto di vista l’Italia è parecchio indietro rispetto ai principali competitor, nonostante la crescita degli ultimi anni.
Tra le ragioni del ritardo italiano, vi è il fatto che questi investimenti sono complessi anche perché il loro effetto è più difficilmente quantificabile sulle performance aziendali (hanno un risultato più incerto) ma anche perché le imprese, soprattutto quelle di minori dimensioni, hanno più difficoltà a rappresentarli adeguatamente per il finanziamento e quindi porta a una limitazione dei finanziamenti bancari di qualità e quantità adeguata per lo sviluppo.
Un fenomeno che può essere affrontato attraverso un approccio più relazionale nella concessione del credito, noto come relationship lending il quale integra il finanziamento tradizionale con un supporto focalizzato sulle strategie di innovazione e organizzative, oltre la semplice erogazione di credito ordinaria.
Tuttavia, una recente analisi dell’Istituto Guglielmo Tagliacarne, condotta insieme a Marco Gentile, Marco Pini e Domenico Bognoni, evidenzia che tale approccio rimane ancora limitato, adottato solo dal 12% delle imprese rispetto al tradizionale modello di concessione creditizia. Le aziende che beneficiano di questo tipo di rapporto, però, dimostrano una maggiore capacità di investire sia in innovazioni green sia in quelle digitali, affrontando con successo i temi della cosiddetta “duplice transizione”.
Il rapporto diretto banca-impresa, anche in epoca di montante intelligenza artificiale e di globalizzazione della finanza, rimane dunque fondamentale. I dati del 2023 lo suggeriscono: rispetto al 2022 In Italia le banche più grandi hanno ridotto gli sportelli di quasi l’8% a fronte dell’invarianza (anzi di un lieve incremento) di quelli delle banche più piccole. Lo stesso è accaduto per il personale, che si è lievemente contratto per le banche maggiori, mentre è cresciuto di quasi il 3% per quelle minori.
Ma allora, guardando al supporto di investimenti più complessi e immateriali, non è solo la dimensione
bancaria che fa efficienza, ma il modello di gestione e di vicinanza alla clientela. Ma come integrare quest’ultimo per realizzare un equilibrio efficiente tra dimensione, digitalizzazione e vicinanza al territorio?
Le riflessioni su questo quesito sono esposte dal direttore generale del Centro Studi Tagliacarne, Gaetano Fausto Esposito, nell’articolo pubblicato sul blog di HuffPost dal titolo “Una banca più è grande, meglio opera? Una questione controversa”
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https://www.huffingtonpost.it/blog/2024/12/26/news/una_banca_piu_e_grande_meglio_opera_una_questione_controversa-18069057/